lunedì 19 ottobre 2015

Non sono mai stata protetta

L'uomo senza dubbi.
Sto' facendo le prove per uno spettacolo che non amo. Colori e faccine. Finto. Tutto finto. Eppure non so liberarmi. Non so dire: "Mi fa cagare!". E mi annoia anche. E l'arte non da' soldi e non annoia. Ma tocca, spaventa, ti ritorce dentro.. le viscere iniziano ad esistere e a svegliarsi.
Invece in questo spettacolo mi sento in gabbia.
Poi gli scrivo.  E' lontano. Non so se vorrà vedermi. Là a Barcellona. La città del sole. Della cattedrale vertiginosa. Ogni volta che ci salivo sopra sentivo la testa girare, e l'aria sospesa nel mio corpo, con il vento che penetrava e l'amore dei suoi occhi. Pepe. L'uomo per cui non ho mai avuto dubbi. Con lui su quella cattedrale toccavo Dio.
Così vado da lui. Lo incontro. Cerco il suo conforto anche se ci siamo lasciati da dieci anni. Lui è freddo. Come da quando ha deciso che la separazione affettiva e "dimenticare" fosse l'unica soluzione. Al dolore. Ma sento che quella è paura. E allora cerco l'origine di quell'amore.
Non ho mai avuto dubbi per lui. Di amarlo senza condizioni. E che fosse giusto.
Non ho risposte. Ho solo la certezza che è stato così. Che fu così.
Ma poi ho un dente che mi fa male ed Elena mi cura.
Quando mi sveglio ci sono solo io nel buio. Il corpo di un uomo altro da Pepe. Poi resto sola.
Dormo sola. Nel mattino che mi accoglie. Sono solo sogni che rispondono ai messaggi di Diego di scuse.. Scuse su scuse in un momento in cui non ho più forza per lui.
Promesse.. promesse. Mentre cerco conforto nel corpo di un altro. Da lui e da me.
Me ne sto' andando definitivamente da lui e mi manda composizioni per un CD che sta' tentando di partorire da quando lo conosco.
Ma in fondo non gli importa di me. Ha solo paura che io non sia più di sua proprietà. E che possa splendere senza di lui. 
Il suo volermi controllare sta' diventando sempre più penalizzante. Mi sta' asciugando.
Venerdì sera dopo le prove ancora.. i suoi attacchi nell'alcool. E il suo tentativo di farmi sentire malata perché faccio arte e teatro. Perché sto' diventando sempre più indipendente da lui artisticamente, più brava. E non ho paura degli insuccessi come li ha lui. Perché per me l'arte è vita. Per lui affermazione di un "ego" ancora. O chissà cosa..
Non ho paura della frustrazione di non apparire sul cartellone di un "grande teatro" dal momento che il teatro in quanto tale è morto. Nei grandi teatri passano lo specchio di ciò che la società vuole ora. O la scia di un mercato che intrattiene, ma non prende e non da'. Passa per la televisione e per una comunicazione che non parla. Il dolore è sotto la tecnica e immagini che usano sempre più tecnologie dietro cui ci si nasconde.
E per me il teatro è l'umano che parla nella sua nudità ad un altro che vuole ascoltare la sua verità e la sua ferita.

Ho imparato ad attaccare e ad usare le parole di Diego come motivi per amarlo sempre meno. Sempre meno. Come è successo con Giovanni. Con Mattia. E con tutte le persone a cui ho dato una sincerità imperfetta, ma onesta. Chiedevo banalmante di comprendere l'incomprensione della mia diversità.
Ma almeno sto' imparando ad amare meno chi mi fa del male. Perché chi ti ama, resta. Davvero.
Per anni ho compreso. Accettato. Non mi sono mai realmente arrabbiata. Ho solo covato un rancore latente per mio padre. Nel silenzio. E per mia madre che non c'era.
"Io non sono mai stata protetta ?". Dice così Paolo.
Era la frase di un sogno. Tento di divagare, ma poi piango. Si. Sono diventata io protettiva per raggiungere la protezione materna che non poteva più esserci. Ma non sono mai stata protetta. Il possesso e la gelosia di mio padre non era protezione. Erano le sue paure. Era lui su di me. L'assenza di mia madre era la sua malattia. Sono solo fuggita e ho rimpiazzato concetti, come la protezione. Dimenticandomi di me. Di trovarmi. Di capirmi.
E poi torna l'evento. E piango. "Voglio solo dimenticarlo. A cosa serve? So che c'è stato. Che mi ha fatto del male e mia madre non c'era a proteggermi da lui. Ne ho parlato tanto anche nell'altra mia analisi. Ma non serve. Ci sono ferite che restano. Possiamo solo conviverci o tentare di farci meno male e trasformare quel dolore". Eppure piango. Perché penso allo scempio che ho fatto della mia vita. A quella bimba che ancora grida.
Fare i genitori è la cosa più difficile del mondo. Si pensa di essere padre e madre in base al ruolo che viene tramandato. E si ama secondo quello che la madre, la nonna, la trisnonna nei secoli dei secoli ha tramandato. E invece è più complesso o libero di così. Ogni figlio è una vita a sé. Diversa. Ed unica. Non la nostra proiezione. Non il rimando dei nostri insuccessi. O il tentativo di riappropriarsi di noi attraverso la vita di un figlio.
Dovremmo essere così evoluti da sapere ascoltare. Di tenere come un tesoro la materia viva e nuova tra le mani e guidarla nella sua vita indipendente.
Come fa uno scultore con una sua statua. Come fa uno scrittore con una pagina bianca. Come tento di fare io con lei. Per toglierla da me. Partorirla e lasciarla vivere diversa da me. Senza un controllo. E amarla nella sua diversa imperfezione.

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