venerdì 9 ottobre 2015

Il discorso dell'altro

E' un problema di autorizzazione alla mia autenticità. E se non mi autorizzo, se non la autorizzo, non arriverò mai alla verità in arte.
Eppure ci sono quasi. Se non fosse per queste relazioni che ho paura di perdere. Ancora.
Mi siedo di fronte a lui. Il suo studio non mi piace. Ha poche cose. Ma lo riempio subito con tutto il mio immaginario. Che è immenso, infinito.
Non mi annoio da sola. Sono capace di passare ore e ore e ore, una vita intera con le voci che spuntano di continuo da ogni mio poro.
E' un'infinita massa simile ad un blob chiaro e informe che cambia. Si plasma.
Mi siedo. Ha dei libri, ma non riesco a leggere i titoli. Uno è aperto e lo chiude subito. Sottolineato in modo ordinato. Io, i miei, li mangio.
Questo maschile. Il mio discorso devo portarlo sempre ad un essere umano biologicamente maschio.
Chiude il libro aperto e nel farlo cade la matita. Per raccoglierla mi scontro con la sua mano.
Sono in imbarazzo. E' strano. Con John non avevo paura del contatto fisico. E con lui si.
Non so come si chiama. O meglio, si, ma non lo chiamo. Lo dimentico ogni giorno. E questa, per me, è una novità.
Parla a voce bassa e poco. Molto poco. Ogni tanto mi ferma e mi fa riflettere sulle parole che percepisce abbiano un significante esatto.
E' la mia autenticità che tento, finalmente, di puntualizzare. Si, ma qual'è?
Che non sono una donna per bene. Non me ne è mai importato niente di esserlo. Da sempre. Ho sempre trovato noioso essere una brava ragazza, nel senso comune.
Ero tutta nervi scoperti con questa pretesa di amare ed essere amata. Ma di un amore che fosse autentico.
La prova della mala, l'ultima, è andata bene. Ho sudato. Ho tirato fuori tutta la mia energia toccandomi la vagina con il pesce. E urlando questa maternità che fa solo aborti. Come posso generare vite se non sono autentica ancora?
Racconto di Diego. Sempre lui. Solo lui. Chissà se lo amo davvero. Me lo sono chiesta.
Siamo andati a cena. Al giapponese. Lo fa per me. Perché mi piace. Quello bello, vicino casa sua.
E sono arrivata tardi. Ma lui mi ha aspettata. Lo vedo che mi ama. E lo diverto.
Ma finita la cena, il tempo di portare la macchina ad un parcheggio, e lui, nei dieci minuti tra il ristorante e casa sua, si è già fatto i suoi cicchetti.
Sotto casa, il copione. Io mi arrabbio. Saliamo da lui. Lui mi dice mollami. Io urlo che ho bisogno di un uomo diverso. Che è uno stronzo. Lui mi dice che con il teatro non ci campo. Che con la musica è diverso. Che sono una fallita con l'altra regista arrivata dalla Russia apposta per portarmi via da lui! Gli dico di ridarmi i miei pezzi, le mie canzoni e che non voglio più comparire nel suo CD.
"Stronza! Mi ricatti?". SBAM! Il mio schiaffo in pieno viso! E lui, in mutande, che mi guarda innamorato mentre gli dico che è stronzo lui a ridursi così a 51 anni.. che se non gli importa di me, almeno di sua madre!
Lui non reagisce mai ai miei schiaffi. Fuma. E in calzini e mutande, alla mia seconda provocazione, "Ho bisogno di un uomo diverso accanto!", lui dice: " E io ho bisogno di una donna che mi protegga! Che mi tiri fuori!". E me lo dice disperato, in mutande e calzini, guardandomi con gli occhi rossi dall'alcool. E mi viene da ridere.
Mi sta' dicendo che lo devo proteggere, seminudo.. e io non so più come fare. Mi spoglio anch'io. Mentre lui dice: "Amore, andiamo a letto?". E io rido perché sono tutta nella mia comica, consapevole di esserci.
Poi lui mi chiede di sposarlo. E la comica avanza. "Ti mantengo io. Tu scrivi le tue cose. Facciamo un bambino, ogni tanto fai un po' del tuo teatro e poi segui me. Viviamo in Liguria finché il bambino non ha dieci anni e poi veniamo a Milano".
E io rido. Ma perché da' per scontato che io partorisca un maschio e mi vada bene rinchiudermi in Liguria vista mare con lui?
Poi andiamo a dormire. Arriva anche Jack. E sono nel mezzo del letto, con Diego a destra, Jack a sinistra. Che mi schiacciano. E russano.
Abbraccio Diego. Nella sua nudità. Sono più forte di lui. Lo sa. E probabilmente mi ama di più. Più di quanto non sia disposta io.
"Sei la cosa più importante che ho - mi dice - ma ho questo problema compulsivo.. ma ti amo".
La mattina dopo facciamo l'amore. Poi lui parte per la Liguria e mi lascia a casa da lui. Deve andare giù per arrangiare i tre dischi di Matteo. Sta' con lui e l'altro chitarrista chiuso tre giorni in casa a lavorare.
Mentre lo saluto dalla finestra mi urla: " Ho bevuto un po' ieri eh?". E poi se ne va.
Resto sola nella sua casa. Che mi piace perché c'è il suo piano, la musica, i suoi cd. Ma mi terrorizza il suo discorso. Che è il discorso dell'altro. Non il mio. Eppure mi tiene lì ancora.
In questa paura di perdere le mie paure. E dire al mondo che io sono mala, non sono una donna per bene.
Non voglio essere amata per ciò che non sono. Ma per ciò che sono, per il mio discorso di donna, che non è quello di una donna per bene, quella che mio padre voleva che fossi, quella che tutti gli uomini cercano in fondo.
Non voglio chiedere più perdono a me stessa e agli altri di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi.
Voglio scrivere e dedicare le stesse parole a uomini diversi e dire ogni volta: è la prima volta..
La prima volta per il mio discorso.

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