venerdì 19 giugno 2015

Nike

Non abbiamo un corpo. Noi siamo un corpo.
E' la base del teatro eppure con il mio corpo ho avuto un rapporto conflittuale in tutta la mia storia.
Non riesco a parlarne troppo. O forse si. E' qualcosa che per me è scontato. Il conflitto, i passaggi e i resti.
Nasco femmina e passo nella mia infanzia a confondermi con mio fratello. A desiderare di essere maschio per poter essere più libera, anche nei giochi.
E' questione d'identità. E lo da' il sesso?
Mi divertivo di più con i "maschi" eppure ero/sono "femmina" nella vanità. Ma non riesco neanche a comprenderla o a comprendere i miei passaggi. Accade l'incidente di mia madre. Finisce tutto. Anche i confini. Di me stessa e della mia crescita.
Non riesco neanche a dirlo. Ho imparato a dimenticare, ma non il corpo. Il corpo non dimentica. La voce se ne andò. In un grido d'amore.
"Dove sei? Ti ho vista andartene su di una bici. E perderti. Con la tua femminilità è caduta anche la mia infanzia. Il mio corpo e la mia identità si sono fermati su quell'asfalto".
Il mio corpo. Lo guardo allo specchio ora. A trentanove anni. Ancora mi vergogno di lui.
Dei miei seni per esempio. Troppo piccoli. Li nascondo o li esalto eppure me ne vergogno. Oso mettere vestiti "scoperti" e poi non sostengo lo sguardo dell'altro.
L'unico modo che ho per sostenerlo è di pensare come un uomo o come una bimba che non si cura di com'è.
"Per lei il corpo è un problema?". Guardo la Nike. La Nike di Samotracia. Il corpo mutilato. Dal tempo.
Si. Lo è. La bellezza del corpo di mia madre. Il suo visto tumefatto. Un letto di ospedale e l'odore di chimica.
Lei mi aveva carezzata il viso con la mano sinistra. Piena di ferite. Aveva un'escrescenza rossa. Mi faceva paura.
"Sono così brutta che non puoi parlare?". Mi aveva detto di non farlo. Lui. Di non dire. Ma lei era veramente brutta così. In quel letto. Non era più lei. Aveva il viso tutto tumefatto e paralizzato. Non riuscivo a guardarla. E parlava male. Anche se si sforzava di restare mamma.
Io non la riconoscevo. Non ho più parlato. Non mi sono più riconosciuta.
Senza voce. Senza corpo. Solo le mie mani scrivevano. E la mia mente è allora che ha iniziato a fuggire in mondi paralleli. Ad inventare famiglie ed esseri con cui parlare per non impazzire totalmente.
Il corpo di mio padre. E il mio che da piccolo ha iniziato a gonfiarsi per farsi vedere o fare vedere la mia sofferenza. Eppure niente. Stavo per scoppiare di dolore.
Poi la fisarmonica. Mamma è rientrata nel suo corpo. Nel suo ruolo e ha rivisto me. Una dieta, un po' d'amore e sono rinata in un corpo da giovane ragazza. Ma il mio corpo non era. Non poteva essere.
Lo sguardo dell'altro, del maschile, era proibito. Non potevo mettere gonne. Le mie gambe erano storte. Distorte dallo sguardo dell'altro.
Così sono scomparsa dal controllo. Pensavo di fuggire al controllo sparendo alla vista, dalla vista dell'altro. E in questi meccanismi privi d'amore, tradivo il mio sé.
Sono riuscita a guardarmi,  a farmi toccare e penetrare solo nell'amore, nella fiducia dell'altro. In una lingua altra. A chilometri di distanza dalla dimensione di chiusura in cui ogni millimetro della mia carne e della mia vita erano stati rinchiusi. Sotto pressione. Sott'olio e sott'aceto. In conserva per un tempo e per il pasto dell'altro. Con la speranza di essere mangiata prima della scadenza.
Ma l'amore ha ridato libertà alle cellule del mio essere, del mio femminile, della mia femminilità, del mio essere donna. Eppure non sono la stessa cosa.  Femminile, femmina e donna.
Ma li confondo in un corpo impaurito.
"On t'a fait pour moi. Ici il y'a les ailes". Come la nike. L'amore di una lingua diversa. Di un uomo altro. Ha trovato le ali anche se non avevo braccia.
Non avevo braccia, ma avevo ali. Ero stata fatta a pezzi. Il mio corpo di donna.
Ancora adesso. Non ho più braccia. Né gambe. Ma ho le ali. Forse un giorno sarò libera, liberata da questa divisione. Dall'idea della mia educazione.
Forse un giorno volerò nella liberazione da questo corpo. Senza tradire più. Forse il mio essere attrice mi concede l'eternità di un corpo mai avuto. Forse il teatro è la mia fortuna, sono le mie ali per vestire ruoli sempre diversi. Perché l'uomo muore, il personaggio no.
Come la Nike. Una vittoria senza tempo. Senza corpo.


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