mercoledì 4 giugno 2014

La vita

Cara mamma,

scrivo qui per pubblicare qualcosa che non ho il coraggio di dirti. E' assurdo come sembri più semplice. O forse è un buon segno perché sono arrivata al punto di pubblicare un dolore o i passaggi che mi hanno impedito per anni di vivere.
Mi hai dato la vita 38 anni fa. Per un tempo sei stata quella che mi ha conosciuta di più eppure quella che mi ha difeso di meno.
Per tanto tempo ho dato a te la colpa delle mie follie, delle mie corse e delle mie perdite. Anche a te. Forse più a te che a mio padre. E forse da un certo punto di vista è stato così. Da un altro, quello più razionale forse, era tutto giustificabile. Non poteva essere che così.
Ho sempre pensato che avrei potuto capirti diventando donna, adulta e poi madre. Ho sempre pensato che sarei riuscita a comprendere e magari a perdonare.
Forse non ho ancora perdonato perché la maternità, quella "tradizionale", tarda ad arrivare nel mio corpo.
Avevo otto anni quando un incidente ti ha portata via. Un pomeriggio d'inizio settembre. Giocavo con mio fratello sotto casa. Mi nascondevo sotto le macchine e mi sporcavo. Come un maschio. Giocavo a calcio con tutti gli altri del quartiere. Anzi della Borgata. Il Canaletto. L'odore del mare era vicino. Sempre presente.
Manifestavo la mia irruenza e libertà e diversità. Perché volevo essere come mio fratello. O avere gli stessi diritti. Tra le bambine ero il capo di giochi che inventavo.
Con i "maschi" era la guerra.
Era difficile tenermi. E tenere la spinta creativa o la vita che doveva uscire da me o mi avrebbe divorata.
Riuscivi a calmarmi tu. Con poco. Mi rifugiavo nella tua femminilità. Tra i tuoi capelli lunghi e neri per proteggermi. Anche da me stessa.
Eppure quel giorno ti ho vista partire in bici con mio padre e nella tua pedalata incerta ho sentito un pericolo. Rivivo quel giorno con una presenza e un'emotività che anni di analisi ancora non sono riusciti a placare. Ci sono momenti così presenti e altri che ho rimosso per sopravvivere.
Andavi via. Abbiamo continuato a giocare io e Simone. Ma tu non tornavi più. Il suono di un'ambulanza. I vicini, i nonni. Il trasloco dei miei canarini. Tutto veloce. E le mie domande: " Dov'è la mamma?".
Non rispondeva nessuno. Eppure ti chiamavo dentro di me. Cercavo di comunicare con te senza sapere che eri in coma, tra la vita e la morte. In un'altra città. A Pisa. Che io conoscevo perché era la città dove si era laureato papà. E ci portavate lì in pellegrinaggio.

Un camper di una famiglia tedesca aveva agganciato il manubrio della tua bici. Ti aveva trascinata per non so quanti chilometri, travolta e lasciata lì. Sulla strada. Tra il sangue. I tuoi capelli e il tuo bel viso che non è più tornato.
Per tanti anni ho odiato la Germania. Solo di recente sono riuscita ad andare a vedere Berlino. I giochi delle paure..
La mia infanzia è morta quella sera di settembre. E la mia voce se n'è andata la mattina dopo quando ho trovato sul tavolo dei nonni La Nazione con in prima pagina la tua foto in barella. Il viso di mio padre che non aveva espressione. La nonna in lacrime. E quel titolo: "Donna in fin di vita".
Iniziai ad urlare. Urlai così tanto che la mia voce se ne andò con me stessa. Da qualche parte.
Non avevo gli strumenti per capire un dolore così grande. E nessuno era disposto a capirmi. O forse c'era troppa ignoranza.
La maestra a scuola aveva appeso quell'articolo nel cartellone degli eventi dell'anno. Come se quella dovesse essere una cosa da ricordare. E invece avrebbe dovuto aiutarmi a comprendere per andare avanti. Magari farmi parlare. Ero muta come i pesci del mio mare.
Ma scrivevo i miei mondi.

Per fortuna sei uscita dal coma. La nonna che è cattolica e credente ha gridato al miracolo ed è diventata devota di Santa Gemma. Ancora adesso mi manda la rivista a casa, a Milano.
Non le ho mai detto, per rispetto, che l'immagine di Santa Gemma mi fa un po' impressione. E' convinta sia stata lei a salvarti. Io non lo so. Da piccola credevo negli angeli. Ora credo di avere avuto fondamentalmente "culo" perché se non ti fossi risvegliata, la mia vita sarebbe stata sicuramente peggiore di com'è stata. O almeno è quello che penso.

Due giorni fa sono venuta a casa. Era da dicembre che non entravo in camera mia. Che non stavo tra le mura della mia giovinezza. Il piano. I libri di lingue. La letteratura. Le grammatiche. A 18 anni me ne sono andata. Ostacalata da mio padre,  come sempre, e incentivata in segreto da te. Che capivi che era giusto. Ma lo temevi perché la mia forza e il mio desiderio di essere donna e di ricerca l'hai sempre amato. Prendevi un po' dalla mia vita, la vita che è stata negata a te.
Non riesco più a tornare spesso a casa. Ci sono fantasmi. E c'è il dolore. Tu ora sei così piccola, magra. Hai i capelli corti e bianchi. Parli male e fatichi a mangiare perché un tumore 4 anni fa è entrato nel tuo corpo. Come a ricordarti che la vita ti è stata lasciata, ma è appesa ad un filo e forse devi meritartela.
Il tuo tumore. I medici dicevano che non c'era speranza. Ancora in ospedale. Questa volta ero in prima linea. Con mio padre che non riusciva a parlare con i medici e dovevo farlo io. Il primario che faceva il primario e non riusciva ad essere chiaro su di te. Ma io sono violenta nel volere le mie risposte e lui disse: " Tre mesi di vita. Proviamo ad operarla, ma non c'è molta speranza".
Papà era distrutto. Io sono entrata in camera da te che mi guardavi con gli occhi di una bambina che cerca risposte. Come una me di tanti anni fa. Mi hai chiesto: "Hai visto il dottore?".
"Si. E' tutto a posto. Stai tranquilla". Ho imparato a mentirti così bene. E non so quanto ti abbia aiutata.
Ricordo bene quella sera. Ti abbiamo salutata io e papà. Iniziava novembre. Il mio mese. In macchina con lui non sapevo che dire. Avevo un po' paura di una ripetizione, di un buio. Di un uomo in preda alla follia con una bambina che non sapeva e chiedeva solo amore.
Invece lui è scoppiato in lacrime, nel buio della mia macchina. E ha detto: " Non ce la faccio senza di lei. Se se ne va, io non ce la faccio". E io l'ho abbracciato, con paura e comprensione. E ho trovato dentro di me il coraggio che lui non poteva avere per te. Per noi. E per te.
I giorni successivi sono stati difficili. Ho trovato il modo di dirti come stavano le cose e tu mi hai abbracciata e hai creduto al mio: " Ce la faremo".
E' iniziata un'operazione lunga 14 ore. Il 17 novembre. Quattro giorni dopo il mio compleanno. Durante quelle ore interminabili, pensavo agli angeli e guardavo il sole. E credevo. In qualcosa. La mia testa e il mio cuore erano da te. Il più possibile.
Quando sei uscita finalmente dalla sala operatoria, gli infermieri ti hanno detto: " Guardi sua figlia. E' sempre qui a controllare". E hai sorriso a loro e a me perché in reparto non mi sopportava più nessuno. Ami i miei artigli.
Poi sono iniziate le notti. Dormivo su una sedia e mi davo il cambio con papà. Poi è arrivato anche Simone.
E piano piano, piano piano, abbiamo vinto anche questo male. Non smetti mai di dirmi che sono il tuo angelo e la tua forza.
E io ho ripreso a fuggire. Dal mio passato, da te e da me stessa. Ma non so scappare. Sono inciampata in dolori e uomini che potessero ricordarmi il primo uomo che mi ha ferita l'anima.
E non te l'ho mai detto. Non sai più niente di me. Ti sei fermata a Pepe. A quell'amore grande che mi ha fatto prendere una nave e naufragare, autobus, energie e sogni. Perché io amo così. Investo e avvolgo. E proteggo. Anche te.

Sei caduta qualche giorno fa. Perché tentavi di rincorrermi nelle mie fughe. Mi sono sentita così in colpa. Lo so che ti manco. Eppure fuggo.
Mi hai chiamata vicino a te. Nel tuo letto. Mi hai dato un foglietto, scritto a penna con la tua bella grafia. "La vita". E nel darmi quelle parole hai pianto. Ho messo la mia testa sul tuo ventre e mi hai accarezzato la testa come solo una mamma sa fare. L'amore di una mamma. La carezza di una mamma è diversa da qualsiasi altra carezza.
Ho letto e ho pianto piano. Perché in quelle parole c'ero anche io. Il buio. Mio padre. Sempre presente nella tua vita e hai chiuso con "l'amore eterno".
Ho pensato fosse un testamento. D'amore. Di congedo forse. O ancora una richiesta di amore. Un passaggio di amore. Quella bambina non tornerà più. Quel divario, quel vuoto di amore l'ho cercato nel dolore. Vivo con ansia ogni cosa. E per non sentire mi sono abituata al dolore.
Me ne sono fatta con il cibo. Con gli uomini. Con i tradimenti. Per sentirmi un'eroina nel vincerli.
Sono anni che faccio analisi. Mi chiedi: " Vai sempre da quello là?". Si. Credi che sia un santone. O una stampella. Magari lo è.
Ma ho messo su dei fogli Excell i dolori della mia esistenza. Per poter calcolare e progettare il mio futuro. Ancora non so usare bene le formule e le funzioni, ma va molto meglio.
Grazie di avermi dato la tua poesia. E di avermi fatto piangere.
Solo l'amore potrà salvarmi.

Ti amo tanto.

Gigia

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