martedì 3 dicembre 2013

Stop That Train

Antoine D'Agata
Lavoro da due anni con la fotografia, quindi con le immagini, e da quando ho scoperto il lavoro di quelli che poi sono diventati i miei riferimenti, Daido Moriyama e Antoine D'Agata, ho iniziato a sentire quanto le immagini ti vengono da dentro, anche se poi scattare una fotografia sembra un gesto esteriore, estroverso. In realtà quando scatti sei in una terra di nessuno, o meglio in una terra di mezzo dove confluiscono diversi mondi, quello che hai dentro si connette con quello che c'è fuori e i tuoi desideri e la realtà esterna si coniugano in misteriose sfumature che c'erano anche prima, solo che non eri in ascolto a coglierle ...

Prima scrivevo e mi occupavo di arte, mi tagliavo la testa in due per poter usare la mia parte critica al meglio e recuperare pneumaticamente il dolore scegliendomi di parlare di performance art e di danzatori butoh piuttosto che di nuovi media perché quello è il mio centro di gravitazione, anche se poi quello che ti occupa può risuonare con cose lontane, e quello che ti piace può virare in stile senza attenzione per i corpi reali, quelli che passano fuori dalle accademie e dai musei e che cercano cibo, amore, soldi, ascolto, attenzione, e per cui solo se quanto è dentro (le accademie, i musei) ha una assonanza forte mi interessa, altrimenti anche la fotografia diventa una tecnica con cui si tenta di scordare che dobbiamo morire e che soffriamo per l'assenza di qualcuno, ma se ce lo scordiamo troppo smettiamo di desiderare e la nostra dimensione diventa insipida, ansiogena e fascista, si sarebbe detto una volta, sopratutto a Milano, dove vecchi palazzi di quell'era sono ancora dispiegati sul territorio, con le loro ombre, come la Stazione Centrale dove dei barboni mi si sono offerti, a me e alla mia macchina fotografica, per potersi comprare un panino o una birra e lì mi sono reso conto di cosa avrebbe significato essere un fotoreporter che fa il suo servizio soddisfatto, con un 'poveretti' che nasce dalla bocca a coprire un buco ben più grande nella mia anima, e loro forse non lo sanno ma se non sto attento sono lì per quello, voluti da me o da gente simile a me ma con cui potrei trovarmi improvvisamente, per imbarazzo, d'accordo ...

Daido Moriyama
Ho lavorato sulle fotografie di Francesca Woodman, che si è suicidata a un'età in cui anche io riflettevo sulla nullità del mio vivere famigliare (del bisogno di trovare un altro a cui dire tutto come Jack Cassady ascoltava tutto di Dean Moriarty) e sulla mia possibilità di sparire in modo così intenso da affidarmi poi alle amicizie e agli ideali per uscirne, in modo così repentino da lasciare indietro, rinchiusi in chissà che fondo armadio, chissà quale ben di dio interiore per paura di guardarci ancora e di farmici risucchiare, ma per lei, buttatasi a ventidue anni dal proprio studio di fotografa a new York dopo aver pubblicato il proprio primo libro, quelle disordinate geometrie interiori, ho provato così tanto affetto che non ho potuto non guardare ancora dentro quel mio pertugio, e ho provato tanto il senso di venirne risucchiato da quasi frantumarmi, in una fredda notte di ottobre, dove ho sentito contemporaneamente, dalle immagini di lei che stavano nella mia testa, da quel corpo giovane di ragazza che si mescolava con gli ambienti che fotografava e che quasi spariva in esso, tutta la fragilità, la impossibilità a vivere, lei che amava Gertrud Stein perché era così diversa nel suo imporsi anche alla sua compagna al punto di scriverne la autobiografia, e nello stesso tempo tutto il bisogno di un mondo, quello dell'arte, di distrarsi dal suo corpo per dedicarsi all'arte appunto, chissà se Francesca fosse stata giapponese e avesse avuto come amico Eikoh Hosoe o Tatsumi Ijikata invece, o se avesse avuto il tempo di farsi amica Nan Goldin, se si sarebbe salvata ...

Andrea Chiesi
Mi era arrivato addosso tutto il dolore del mondo, con il desiderio dell'altro di lasciar perdere, mentre il mio altro ormai era Francesca, che mi chiedeva di non lasciarla perdere, e allora ecco alcuni autoritratti che erano reenactment di sue fotografie, ecco una mia foto da Londra col volto pestato in una rissa e la mia, Nan Goldin, i ricordi di quando avevo sfogliato un catalogo di taccuini di Andrea Chiesi con quei corpi punk che mi ricordano i ragazzini di Larry Clark, quel fotografo che molti definiscono perverso perché ostinatamente ci ricorda quanto siamo fragili, touch me I'm sick, ma no basta un po' di educazione e di età adulta per farti capire che i conflitti sono nel passato, devi crescere, oppure hai avuto problemi con papà e mamma da confidare allo stanzino del potere della psicologia, per non disturbare, e avere in cambio il nulla per poter stare tra gente che non ti è simile perché considera i soldi e il lavoro come il tributo alle angosce che non vogliono avere, le tue, quelle dei barboni, dei tossici della Banhnof, dei transessuali che a New York vivevano in tribù sperando di non farsi decimare dall'AIDS, degli skaters che si suicidano davanti alle telecamere o che predano le ragazzine vergini sperando di non farsi infettare da una malattia venerea, e che io ho finalmente accettato come mie, non quelle di un ago, non quelle di un rasoio, non quelle di una mano che si fa pugno per pestare il volto di qualcuno che non vuoi più spettatore giudicante delle tue, fragilità? se si declinano con così tante immagini come fanno a essere fragilità? sono forze a dire il vero, forze che ti attraversano, lo sapeva Deleuze credo, e pochi altri, Artaud forse, e sono forze che non abbandonerei mai perché sono lì e mi chiedono di fare qualcosa, non sono parassiti di cui vorrei liberarmi, perché se le tengo vicine e dentro sento cosa voglio, anche solo dalla mia macchina fotografica, che è due anni che mi impedisce di perdermi, e per liberarmene, inoltre, dovrei barattare tutta la mia storia di essere umano, cosa che non sono disposto a fare, visto che ci tengo molto.

Francesca Woodman
Francesca dunque, che dai suoi ventidue anni nell'abisso mi chiama di notte per abbandonarsi tra le mie braccia, perché non mi dimentichi più di lei (è un po' come quando Querelle e suo fratello si guardano negli occhi sfoderando il coltello, ma finalmente mettiamo via le armi), o cui sempre nei miei sogni ho affittato una stanza e che si è divertita così tanto col mio gatto che mi scrive per chiedermi come sta, e si arrabbia se non le rispondo, dopo essere diventata parte del mio mondo espressivo ci resta, in miei autoritratti dal sapore patinato con sue frasi sovraimposte che sono un po' un atto di accusa verso un mondo dell'arte che ne avrebbe potuto fare un marchio, un nome astratto, non si fosse imposta lei sparendo, perché l'arte oggi ha paura di un corpo che non rientra nel linguaggio, fosse quello mainstream o quello alternativo, che resta segnale di una catastrofe, fosse quella di Hiroshima o quella dei tossici degli anni Ottanta, oggi è tutto troppo educato, patinato, cinico, posso citare Queneau ma non posso parlare di piaghe, e allora che libertà è, e poi rimane il suo nome su questo progetto che evolve nel mio volto e nel mio corpo nudo, che ancora non so del tutto bene come sfruttare, che sfumature tirarne fuori, e quindi ogni tanto mi fermo perché ho bisogno che altre immagini mi vengano dal profondo, e che pian piano sedimentino in modo che le possa vedere nelle mie immagini successive.

Gian Paolo Galasi
Penso a D'Agata che va in Cambogia, passa il suo tempo a casa di una taxi girl e fa foto come se fossero un diario intimo per spostare l'asetticità e il cinismo del reportage in una zona dove io e l'altro non siamo più connotati dai nostri documenti o dalle nostre attività, e dove può finalmente succedere di tutto, e ritrovo anche lì la mia Francesca, nel 2013 finalmente, che finalmente può vivere di vita propria, invece che essere pell mell erased, se il mondo dell'arte se ne fotte perché fottersene del mondo dell'arte, come del mondo piccolo ma non antico del mio macellaio, quello al cui livello avrei dovuto abbassarmi quando scrivevo di self help psichiatrico secondo i volontari cattolici ma di sinistra, riascolto vecchie canzoni punk che amavo da ragazzo, e che parlano di no future non credere a tutto quello che senti, ascoltati dentro invece, sono dovuto passare attraverso la tradizione tibetana per capire cosa è il nirvana ma ho dovuto rendermi conto che nessuna tradizione religiosa ti parla veramente di questo nirvana. I tibetani ad esempio ti consigliano di lasciar perdere il desiderio, perché il desiderio ti fa attaccare ai corpi, alle apparenze, meglio immaginarli vecchi e cadenti, a cosa ti stavi attaccando, ma la mia Francesca invece è giovane e bella, ma sopratutto E' MORTA giovane e bella, promessa di realizzazione di chissà quali esperienze intime importanti e qualcuno non se ne è accorto o la ha lasciata fare perché aveva paura e si è tirato indietro, e questa non è una apparenza, e perché dovrei fare una cosa simile anche io in nome di un dio, inch'allah? Mille dervisci cadrebbero sporchi del suo sangue che continua a gridare SALVAMI ANCORA e se anche io fossi l'unico a sentire non potrei comunque tirarmi indietro, è una questione di sangue, il mio, this sunday pow wow love. Continuo quindi a mettere il mio corpo sotto la mia macchina fotografica, concedendomi delle pause solo per assimilare quello che deve essere assimilato, e ributtarlo fuori dopo, quindi sono pause fisiologiche, non dettate dalla paura.

Christiane F.
Esco di casa e faccio trenta foto in un'ora nel paese qui vicino, e poi ne salvo diciannove e le viro in bianco e nero in un pomeriggio, diventano un nuovo progetto dove ogni foto mi parla di qualcosa che nelle foto non c'è, e nel frattempo guardo corpi di modelle mainstream e alternative perché voglio vedere se, al di là dell'arte tra virgolette, qualcosa dello spirito di Francesca, lo Spirit of Nikopol di Enki Bilal, no love no sex procreate hygenics with eugenics, si è traslato altrove, magari dove nessuno sta guardando, come mi ha insegnato anni fa Eyal Sivan in un suo seminario per cineoperatori. Avevo venti sei o venti sette anni quando mi sono disamorato della Storia, io che la studiavo, perché a pochi chilometri da casa mia si scoprivano le fosse comuni di una guerra etnica con corpi ridotti a brandelli – ancora corpi, sempre e solo corpi – mentre dalle biblioteche di tutta Europa la nostra Unione, la stessa per le politiche della quale quando sono tornato da Londra sentivo gente che si suicidava ogni giorno dal televisore per i debiti, corpi reali resi pornografia dalla politica, e allora era meglio spegnere il televisore e guardare le foto di Nobuyoshi Araki, era più onesto, sarebbe più onesto anche per loro visto che imparerebbero cos'è l'arte senza virgolette, un gesto più intimo e profondo, aveva vietato la conservazione del Mein Kampf che proprio allora stava tornando a essere al centro delle diatribe tra storici per via delle teorie di Ernst Nolte: pare che a leggere bene Hitler non fosse spaventato dagli ebrei ma dai bolscevichi, e che colpendo gli ebrei il dittatore volesse proprio impedire la rivoluzione, pare addirittura che i campi di sterminio fossero stati modellati sui gulag, per una paura così forte che era diventata imitazione, ma quel divieto alla circolazione di un libro ci aveva resi impotenti a studiare, si sarebbe detto sì o no a Nolte per simpatia o antipatia, e allora che cos'era la Storiografia? E poi quei corpi oltremare, in una terra che da sempre aveva raccolto le tensioni e le frustrazioni d'Europa, la sua incapacità a vivere le sue radici, questa Europa maschile e patriarcale che ha sempre bisogno di staccarsi dal proprio dolore per costruire e far affondare chi non ce la fa, non riconoscendoli più nemmeno come figli, questo nelle nostre famiglie tanto quanto sul piano sociale, e chi ha detto che dobbiamo smetterla di porci delle domande al riguardo se ancora tutto funziona così, così abbandono la Storia per non essere uno dei tanti Adolf Eichmann, che soddisfazione sapere che i treni arrivano in orario senza poter nemmeno guardare cosa trasportano, e sentirselo magari dire dopo cinquant'anni da Die Zeitung o da Life. Dove sarei stato io, nel frattempo?

Nan Goldin
Corpi dicevo, ecco che mi metto a guardare i corpi delle modelle, mentre lavoro al mio, perché non mi viene spontaneo lavorare su un mio ritratto guardando 'la storia della fotografia' – ho dei libri bellissimi a casa, ma non sono più uno studente, il desiderio di sapere ho già visto da ragazzo che non passa più di lì, e poi bisogna disimparare per essere, outside the trains don't run on time cantavano i gang of four e Nan e Larry e Antoine sono con me, come Francesca, la critica mi interessa quando non dice che il passato è passato, e quindi inizio a cercarlo dove l'intellettuale o la persona comune, che vive la realtà per schemi e poi ne accusa l'intellettuale, come se l'intellettuale giocasse a scopa bevendo il bianco, non guarda, non tutti gli intellettuali sono come Heidegger, che sì, era fascista. Vogue mi accetta come fotografo intanto, mi piace essere in uno spazio dove ha sperimentato William Klein, per non parlare di Gordon Parks. Il mio sguardo sul corpo non so nemmeno dire quanto sia diverso, è che ho sempre e solo lavorato col mio, almeno fin'ora, e se dovessi lavorare con un altro corpo vorrei che fosse attivo nel decidere come lo devo riprendere, e che magari a un certo punto prendesse la macchina e fotografasse me, a tradimento. C'è un codice anche nell'erotismo, lo spettatore è sempre in salvo, e il fotografo fa da tramite tra il corpo della modella e il mai interrogabile desiderio dello spettatore, sopratutto deve dare una cornice friendly ma mai essere in mezzo, per quello mi piace Araki che invece tiene la mano alla moglie malata che esala l'ultimo respiro e si fa fotografare dal fratello, tutta la libertà che da Tinto Brass non avrete mai, perché ci sono diversi tipi di repressione e lui a me non lo ha mai raccontato dai suoi film, quindi mi mente. Scopro modelle che sono anche fotografe, che intervistano i fotografi, come se quel codice fosse qualcosa che comunque sta stretto, qualcosa da allargare quando possibile, e questa cosa mi fa porre più domande che non Rosalind Krauss o Susan Sontag, che invece hanno delle risposte e ti fanno gravitare in un circuito dove tu impari, mentre Daido Moriyama quando è a Shinjuku e fa fotografie si ferma a un distributore e si prende una lattina di caffé freddo tra uno scatto e l'altro, perché bisogna divertirsi anche.

R.W. Fassbinder
Scopro modelle il cui lavoro mi fa pensare a Shirin Neshat, ad esempio, e penso che in certi casi potrei voler lavorare con loro, al patto di mantenere quel tentativo di uscire dal codice come vero. Potremmo andare ad esempio in un posto dove sotto la finestra della camera da letto o salotto dove stiamo facendo la sessione, ci sia sotto una manifestazione dei No Tav. La mia modella potrebbe aprire la finestra, nuda, e guardare quella gente tra i cordoni della polizia, che devono farli sfollare, chissà cosa passerebbe per la nostra e la loro testa, e chissà poi che reazione avrebbe lo spettatore. Proprio in questi giorni ho sentito provenire dal profondo l'immagine di un mondo dove la gente voterebbe di nuovo Priebke se sentisse il desiderio di una pulizia etnica qualsiasi, sicura di poterlo poi accusare di essere l'unico responsabile del proprio desiderio di farsi strappare via, per non soffrire più – ma com'è possibile se non abbrutendosi? - la radice del cuore. I nazisti non hanno rischiato di vincere solo perché avevano delle armi, così come non hanno perso solo perché gli americani avevano la bomba atomica. Ho rivisto Lola di Fassbinder in questi giorni e quel bordello che è il cuore del villaggio tedesco lo è veramente di ogni luogo umano. Ma in quel bordello si può sempre amare una donna reale, senza sradicarla per farla restare quello che è, in quel territorio dove incontri l'altro mosso da un desiderio che però non è quello che può essere monetizzato dal sapere o narrato da un codice di rappresentazione del visivo, con qualcuno, lo spettatore, sempre salvato e sempre infantilizzato, come se non fosse in grado di farsi degli anticorpi o come se lo si dovesse prevenire dal farsi degli anticorpi, perché allora magari qualcosa nell'economia del biglietto al festival ci rimette, mentre il nostro cuore, per forza di cose, è opaco, perché dentro di esso c'è tutto ciò che nasce e tutto ciò che muore.

Nobuyoshi Araki
Il cuore, si parla spesso del desiderio – ma il desiderio, anche il desiderio di capire, non solo quello che muove la carne al di là della mente e che per questo è più importante dei contenuti di una mente, perché li vivifica, può essere cooptato, lo sa chi spende tre anni in università per fare ora qui in Italia una tesi ridicola per volume e possibilità di approfondimento, oltre che di sbocco lavorativo, purtroppo i Tibetani sono un popolo nomade e non sanno in che modo raffinato noi occidentali ci sappiamo cazzeggiare col desiderio – non si rovina più nessuno, nel senso che nessuno più si auto-rovina, c'è sempre un interesse, come i guidatori di pullman dell'ATM che si fanno di coca per reggere i turni e non per evadere, il che significa che a nessuno è data la possibilità di un percorso personale, che è il vero motivo per cui dobbiamo essere in crisi in Europa, per quanto il nostro cattolicesimo si affanni con un troppo codificato perdono, chissà dov'è l'altro che ci perdona senza apporre una ipoteca sul nostro cuore, ma fomentando in esso l'idea di un legame, se non lo cercate non lo troverete mai – e anche coi mea culpa, non basta tutta la loro millenaria e rispettabile saggezza, cuore di puttana quello della civilizzazione, cuore bastardo, e dato che a tutti noi tocca averci a che fare cerchiamo di proteggerci dalla morte facendo 'qualcosa', in solidarietà meccaniche. Meglio il dolore allora, quello che spesso mi coglie nel fisico, allo stomaco, mi tende le gambe, mentre una ragazza morta a ventidue anni mi accarezza la nuca dall'oltretomba, dicendomi che io non l'ho rifiutata e che merito un po' di riposo nei miei sogni, propedeutico, affinché io continui a cercare, fuori da ogni certezza data, me stesso e lei.

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